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RECENSIONI & TESTIMONIANZE

Reo confesso – Valerio Varesi

Valerio Varesi
Reo confesso
Mondadori, 2021
Recensione di Patrizia Debicke

Ottobre. Quando Soneri, camminando nel parco della Cittadella di Parma, bagnato dalla nebbia, nota un uomo riverso su una panchina e si ferma, non può certo immaginare che sta per cominciare l’indagine più strana della sua ultraventennale carriera. Davanti a quell’uomo disteso di traverso su una panchina, il primo pensiero, automatico per un poliziotto incallito, è che potrebbe trattarsi di un cadavere. A quel punto per curiosità, ma soprattutto per gentilezza, si costringe ad avvicinarsi per rendersi conto se si tratta di un barbone addormentato o di un passante che si è sentito male.
Un controllo fatto per scrupolo, per etica, ma che da quel momento si trasforma in una specie di cappio e lo coinvolge in un gioco malsano di verità ingannatrici da cui non riesce a liberarsi. L’uomo, un ultrasessantenne vestito dignitosamente, pare solo desideroso di sfogarsi, di parlare.
Confida subito che prima del commissario sono passate tante persone ma nessuno si è fermato, anche se qualcuno deve avere chiamato un’ambulanza perché un infermiere è venuto a controllare la situazione, ma lui l’ha tranquillizzato e mandato via.
Soneri è incuriosito e forse divertito da quella persona tanto eccentrica e stravagante ma, visto che sta vistosamente tremando, per toglierlo dalla panchina lo convince ad accompagnarlo in un bar poco lontano. Appena seduti, cerca di offrirgli da bere per riscaldarlo e percepisce che l’altro nasconde qualcosa. E infatti, dopo essersi presentato con il nome di Roberto Ferrari, l’uomo confessa a Soneri di aver appena compiuto un omicidio. Ha ucciso un suo conoscente, un certo Giacomo Malvisi detto James, una specie di promotore finanziario che l’ha rovinato dilapidando in speculazioni illecite, cocaina e peggio, i risicati risparmi di una vita che Ferrari gli aveva affidato. L’ha ucciso, dopo una breve colluttazione, colpendolo a morte con un tagliacarte affilato che Malvisi teneva sulla scrivania del suo ufficio.
Pensando al delirio di un mitomane, Soneri, si fa accompagnare dal Ferrari in questura ma per scrupolo manda Musumeci a controllare la situazione in via Carmignani 8, il luogo dove si sarebbe consumato il delitto. Chiamato un fabbro e fatta sfondare la porta blindata, Musumeci troverà che effettivamente un morto c’è, come il Ferrari ha dichiarato, e seguendo le sue indicazioni troverà anche l’arma del delitto, gettata via tra la sterpaglia lungo l’argine del torrente Baganza, vicino al ponte della Navetta, poco prima di un viottolo che scende verso l’acqua.
A ben pensarci, dovrebbe essere l’indagine più semplice e veloce della storia professionale del commissario Soneri, perché Ferrari gli ha regalato su un piatto d’argento tutte le prove per dimostrare la sua colpevolezza: la vittima, il movente, l’arma (sul tagliacarte ci sono addirittura le sue impronte). Il reo confesso farà ricorso al suo avvocato di fiducia, nella fattispecie l’avvocato Cornelio, insomma Angela, l’eterna fidanzata di Soneri. Angela non è convinta, non le piace la situazione, vorrebbe rinunciare all’incarico, Soneri invece la prega a istinto di andare avanti.
Anche se in questo delitto i giochi sembrano fatti, Soneri, abituato a contare sul suo intuito, vuole approfondire. E stavolta il suo intuito gli dice che qualcosa di quella faccenda senza storia, troppo semplice insomma, non quadra. Di fronte alla confessione di Roberto Ferrari, incontrato per caso su una panchina della Cittadella, ha colto un qualcosa di complesso e artefatto che ha scatenato i suoi dubbi. Dove sta l’inghippo, il punto debole, il punto che stride in tutta quella apparente semplicità? Il caso è così facile da sembrare costruito a tavolino.
Ma il dovere incombe e Soneri, trascurando quell’evidente caso già risolto e senza sorprese, deve lanciarsi sulle tracce di un abile e introvabile truffatore che da mesi deruba la città. Un’indagine come le altre?
Per la prima volta nella sua vita il commissario Soneri, uomo incerto, inquieto, e spesso nebuloso come la sua terra, con il delitto Ferrari si trova di fronte a un’indagine spiazzante, da condurre fin dall’inizio in senso inverso. Al contrario, insomma.
E va pur detto che Valerio Varesi negli anni ha regalato a Soneri un passato sofferto e un nuovo equilibrio fatto di serenità anche affettiva, che stavolta sarà messa alla prova dalla professionale riservatezza di Angela. Il suo incaponirsi nel caso rischia persino di mettere in discussione il loro rapporto. Angela gli pare silenziosa e lontana, mentre lui si sente sempre più solo.
Conosciamo e amiamo da anni Soneri, malinconico Maigret emiliano, con il suo mezzo toscano in bocca a sfida delle regole, le sue incrollabili certezze politico-sociali che lo portano a parteggiare per gli umili, gli ultimi, i dimenticati e i perdenti. Soneri è un protagonista discreto. Soneri è qualcuno che sa bene come muoversi e indagare sugli argini del Po, lungo il torrente Baganza, tra le strade e stradine di Parma o la neve del primo Appennino, guidato dall’acume, annusando indizi minimi, quasi non percepibili.
Ma stavolta sa che gli manca qualcosa. Non gli basta il cadavere, il più che plausibile movente e il colpevole reo confesso. Quello che lo sconcerta è la calma e l’evidente distacco di colui che ha confessato. Soneri non riesce a crederci fino in fondo e si ostina a cercare altro, contro ogni apparenza, senza calcolare che la corrispondenza delle impronte digitali sul luogo del delitto e sull’arma sono quasi un pietra tombale sull’indagine.
Tutto avviene nell’ottobre del 2020, nel caos pandemico, con il distanziamento, le mascherine, le paure, la cautela, le battute e i tanti dubbi vissuti da tutti in questi lunghissimi mesi.
E ovviamente sempre là, umida e tangibile, la nebbia, che è sempre contemporaneamente protagonista e scenario nei libri di Varesi, ma mai la stessa. La nebbia fitta che rende la notte della Bassa un mondo buio e ostile e fa paura o magari la nebbia più sottile, talvolta compagna e amica nei lunghi e noiosi tempi che affiancano l’ardua routine del suo lavoro.

 

Intervista a Valerio Varesi: il potere del linguaggio narrativo

Valerio Varesi, scrittore e giornalista, ampliamente noto ai lettori italiani e anche francesi – già tradotto e pubblicato dall’editore Agullo, e definito da Le Figaro come il Simenon italiano – continua a sorprenderci con prove stilisticamente elevate, in “noir sociali”. È il caso del suo L’ora buca, edito da Frassinelli, dove la scuola diventa finalmente un importante nucleo focale di dialogo – arricchito magistralmente da humor e suspense -, e che riesce ad annullare i gap generazionali.
L’autore, inoltre, continuerà a sorprenderci e ad avvincerci con le avventure del commissario di polizia Soneri, tra le nebbie e le ombre dei suoi paesaggi, attorno al Po. Ricordiamo, uno su tutti, Le fleuve des brumes (ed. Agullo), che ha goduto di molteplici ristampe ed è stato finalista per due volte al prestigioso Gold Dagger Award.

La grande fascinazione scaturita dalla sua scrittura narrativa – unitamente a quella per i luoghi da lui descritti anche per affettività e con raffinata sagacia – ci riconduce ad uno stile di memoria celiniana, a lui altrettanto caro, come pure alla potenza rilevata, ricercata ma concretissima dell’eterno Carlo Emilio Gadda.

Varesi utilizza da sempre un linguaggio che contiene, per sua stessa ammissione, “tre fondamentali requisiti, che sono: una lingua adeguata allo scopo, una storia avvincente e possibilmente originale e una combinazione di personaggi, e intreccio che abbia la pretesa di essere rappresentativa al punto da fornire e riflettere una interpretazione del mondo”.

In un momento così profondamente incisivo in ogni ambito, non più lievemente in quello sociale e culturale, la scrittura di alcuni narratori come Valerio Varesi, Domenico Starnone, Paolo Di Paolo, Sandro Veronesi, Aldo Nove, Nadia Terranova, Alessandra Sarchi, Valeria Parrella – solo per citarne alcuni – risulta essere ancora salvifica, pregna di umana comprensione e capace stilisticamente di incantare i lettori: offrire un modus distante da qualunquismi e dalle ovvietà.

Ma che lingua si deve usare per raccontare in maniera che possa definirsi appartenente alla letteratura? Come si riesce a rimanere “accanto ai lettori”, a non porre distanze linguistiche abissali?

Il tema della lingua è fondamentale. Deve essere una lingua che abbia in sé una riconoscibilità, una cifra propria. Lo stile, insomma, che connota l’autore e lo rende individuabile. La letterarietà è una categoria difficilmente definibile. La si può raggiungere attraverso un percorso colto e ricercato che prevede anche l’invenzione della lingua stessa come fa Gadda, oppure per una strada apparentemente semplice come il periodare paratattico di Hemingway. L’importante è riuscire a creare una fascinazione nel lettore.

Quanto influisce la tua lunghissima esperienza come giornalista, nel “mestiere di narratore”?

Sono due modalità di scrittura molto differenti che corrispondono, a mio parere, a sensibilità altrettanto differenti. Il giornalista informa, lo scrittore deforma. Il primo deve esplicitare tutto in modo quasi didascalico, il secondo compie l’azione opposta, vale a dire deve creare una tensione di curiosità in chi legge e sollecitare la mente strologante. Un processo che porta il lettore stesso a essere egli partecipe della scrittura attraverso l’immaginazione. Scrivere sui giornali è comunque un allenamento di velocità e per uno scrittore il mestiere ha il vantaggio di portarti a contatto con la realtà in modo diretto. Ed è della nostra vita che parla uno scrittore.

Hai reso il tuo ultimo lavoro, “L’ora buca”, una chiara metafora dei nostri tempi, ponendo in evidenza alcune attualissime questioni: la supremazia dell’apparenza sull’essere, il virtuale sul reale, il degrado social culturale e anche politico, nonché la perdita di orientamento ed il distacco sempre più netto tra i luoghi ove la res publica dovrebbe essere resa tale, e le persone.
Pensi che un romanzo possa tentare un cambio di passo nel modo di concepire la realtà e il quotidiano?

Lo spero. In fondo scrivere è comunicare e se riuscissi a far riflettere anche una sola persona con la lettura di ciò che scrivo, per me sarebbe una vittoria. Il problema, in particolare italiano, è che pochi leggono e paradossalmente, nel Paese più ricco di cultura del mondo, quest’ultima è la Cenerentola. Per molti non vale niente ignari che è la nostra fortuna anche economica. A ciò si aggiunga che oggi, in seno al mondo culturale, sono arrivati i manager e hanno avuto, qui come altrove, l’effetto che ha la filossera per un vigneto.

La pandemia che attanaglia l’intero mondo ha cambiato radicalmente lo sguardo sulle cose, posto interrogativi profondi sulle relazioni, creato lacerazioni a livello psicologico e sociale. Qual è la tua idea di possibile ripartenza, ricostruzione, nuovo approccio nei rapporti umani e di un fragilissimo ecosistema?

Io spero che abbia cambiato lo sguardo sulle cose, ma ne dubito. Posso solo sperare che il modello di sviluppo che abbiamo adottato a partire dagli anni ’80, col mercato come unico regolatore della nostra vita, sia dichiarato defunto così come venne dichiarata la morte del socialismo reale. Il punto è questo, solo questo. O si cambia il rapporto rapinoso col mondo e si smette di tirar fuori dall’umano il peggio, oppure sarà la catastrofe. Il Covid è un effetto di questo approccio che distrugge ecosistemi e sta uccidendo il pianeta col cambiamento climatico.

Il tuo rapporto con la Francia è ormai consolidato da anni. Vuoi descriverci questo importante sodalizio e questa importante esperienza?

In Francia ho trovato un’accoglienza davvero speciale. Questo si deve in gran parte al mio editore Agullo. Insieme abbiamo intrapreso un’avventura audace, loro fondando una casa editrice, io esordendo in un Paese nuovo come primo loro libro tradotto. Devo dire che è stato entusiasmante. Ho trovato nei miei editori una specie di famiglia che mi ha accolto. Poi l’affetto dei lettori francesi e la benevolenza della stampa che mi ha generosamente definito ‘il Simenon italiano’. Ho sempre amato la Francia fin dagli anni da studente e ora credo sia diventata la mia seconda patria.

La scrittura è una cura e il pubblico si affeziona particolarmente agli autori che si traducono in portatori sani di cura, anche della scrittura narrativa o poetica. Trovo che come autore, tu possa avere una certa propensione alla prosa poetica. La tua malinconia, cifra identificativa dal punto di vista letterario, ne è evidente segnale.

Ho sempre cercato di introdurre anche nella letteratura noir e poliziesca, la qualità della scrittura. Credo che oggi gli autori che si cimentano con questo genere siano alla pari con coloro che scrivono letteratura ‘bianca’. Tengo molto alla cura espressiva cercando un certo lirismo della frase. Sono, come diceva Lalla Romano, uno scrittore ‘a orecchio’, vale a dire che ho bisogno di sentire la musicalità della frase stessa e finché non suona come voglio, non sono contento.

Oltre a questa preziosa intervista, per i lettori della rivista “Simposio Italiano”, vuoi regalarci una petite anticipation relativamente ai tuoi nuovi progetti letterari e non solo?

Ho in programma nel prossimo mese di maggio e poi in estate, diversi incontri fra Parigi e la provincia. Sarà bello potermi finalmente ricongiungere con gli amici e i colleghi francesi, situazione pandemica permettendo, si spera.
Poi a settembre uscirà per Mondadori una nuova inchiesta di Soneri, il commissario che mi accompagna ormai da anni. Ma attualmente sto preparando un romanzo che parlerà degli anni ’50, periodo che storici e narratori non hanno molto frequentato. Vorrei guardare a quel decennio con gli occhi di una donna
formidabile, una femminista ante litteram come Teresa Noce. La sua figura mi ha affascinato per potenza e per traiettoria di vita.

 

Il fiume delle nebbie, Valerio Varesi

 

 

 

Devo fare il mea culpa, perché un autore come Valerio Varesi dovevo scoprirlo prima. Quando, lo scorso anno, lessi Gli invisibili rimasi letteralmente folgorato dalla scrittura – fluente e allo stesso tempo poetica-, dalla capacità di imbastire trame, dall’innato senso del dialogo e da quell’afflato malinconico che, come una patina sottile ma persistente, accompagna l’evolversi della narrazione. Di conseguenza, non mi rimaneva altro da fare che ripartire dall’inizio. Ho quindi recuperato un volume contenente tre indagini del commissario Soneri ed eccomi qua, pronto a parlarvi del primo dei romanzi, Il fiume delle nebbie: quello che ha consacrato Varesi autore doc nell’ambito del giallo/noir di casa nostra facendolo conoscere a critica e pubblico (se non erro, fu incluso nei 12 finalisti del Premio Strega).
Partiamo, come sempre dalla trama.
Siamo nella Bassa Padania, fredda e nebbiosa. La pioggia cade inarrestabile, gonfiando a dismisura il fiume che rischia di tracimare da un momento all’altro. Il Commissario Soneri, in servizio presso la Questura di Parma, si trova alle prese con due morti misteriose: due anziani fratelli, con uno scomodo passato nelle file del fascismo e della Repubblica Sociale, muoiono improvvisamente. Il primo cade dalla finestra di un ospedale dove svolgeva attività di assistenza; l’altro, viene ripescato dalle acque del Po dopo aver effettuato l’ultimo viaggio a bordo della sua chiatta.
Soneri dovrà appoggiarsi al proprio intuito per mettere insieme i pochi indizi disponibili; il suo percorso investigativo lo condurrà a scoprire il segreto di una vendetta covata per lunghi anni.
Sarebbe riduttivo relegare un romanzo come questo negli angusti confini della letteratura di genere. Ci troviamo di fronte ad un’indagine niente affatto comune, il cui svolgimento viene scandito dal ritmo di un fiume che sa essere placido ma anche mostrarsi nella sua irruente forza distruttrice. Gli sfondi narrativi e lo stato d’animo dei protagonisti, talvolta, tendono a prevalere sulla trama avvicinando quest’opera più al polar d’oltralpe che al giallo di casa nostra: la degna considerazione che ha ottenuto l’autore in terra francese è la logica conferma a questo assunto.
Le atmosfere sono credibili, descritte in maniera notevole; al lettore pare quasi di respirare l’odore freddo e pungente del fiume e di percepire gli aromi e le fragranze che si librano nell’aria. Ma il vero punto di forza di quest’opera è l’ambientazione padana, con la nebbia che ricopre ogni cosa, restringendo il campo visivo e impregnando di umidità ogni singola scena del racconto.
Lo svolgimento della narrazione affascina e impressiona per la sua pacatezza, evitando grandi sconvolgimenti e colpi di scena, ma mantenendo desta l’attenzione grazie ad una scrittura scorrevole e armoniosa che non perde un colpo.
E, last but not least, occorre dedicare un po’ di attenzione al commissario Soneri: un Maigret di casa nostra, umanissimo e credibile, che sa rivelarsi ottimo giudice degli “stati d’animo”: l’inevitabile punto di partenza per la soluzione dei casi a lui assegnati.
Consigliato a: coloro che apprezzano i gialli ricchi di atmosfera, con notevoli descrizioni di luoghi ed atmosfere, ed a chiunque nutra ancora dei dubbi sul fatto che un romanzo “di genere” possa diventare letteratura a tutto tondo.
Voto: 8/10

L’ora buca di Valerio Varesi

Frassinelli, 2020 – Una rappresentazione realistica e al contempo potentemente simbolica di una civiltà decadente, che sembra in procinto di annullare, all’apice delle sue potenzialità scientifiche e tecniche, il suo valore umano.

 

L’ora buca

Il dialogo è la conversazione perfetta” sostiene Nietzsche in Umano troppo umano:

“Nel dialogo c’è un’unica rifrazione del pensiero: questa la produce l’interlocutore come lo specchio in cui vogliamo veder riflessi nel modo più bello possibile i nostri pensieri”.

Nella scrittura di Valerio Varesi il dialogo è la forma predominante di ogni narrazione: persino la lenta consunzione di un Toscano sulle labbra del Commissario Soneri al cospetto di un paesaggio di nebbia è in fondo un modo silente di interrogare la realtà e di attendere risposte. Solo che in questo nuovo libro, L’ora buca (Frassinelli, 2020), che si sviluppa in un ordito complesso che costeggia il teatro delle idee e l’impalpabilità di un giallo metafisico, il dialogo non serve da strumento di conoscenza, bensì di contraffazione manipolatoria della realtà. Come se i personaggi parlassero e si cercassero nella parola per meglio confondersi e annullarsi vicendevolmente, intorbidando il confine già precario tra verità e finzione, fino a diventare ombre che riflettono, per troppa consapevolezza, soltanto la propria obsolescenza.

“Ha tolto la mano dal viso e ha alzato gli occhi: “Così non mi basti.” Ha detto con un filo di astio. “Siamo solo ombre”. “Questo è vero Gina, ma vale per tutti. Ombre che si parlano.”

Tutto inizia in una sala insegnanti di un liceo del nord Italia, con una conversazione tra il protagonista, professore di fisica, e un suo collega, sotto lo sguardo sardonico di un bidello che fa da contraltare, con la sua liquida paciosità di animale vivente pago di ogni occasione che la vita gli offre, alla loro inquietudine ironica e inconciliata, (non dissimile, sembrerebbe, dal colloquio stralunato di due esemplari sopravvissuti di una specie estinta, in un beckettiano “finale di partita”). La situazione, che ricalca quella del Sehttps://www.sololibri.net/Secretum-…cretum petrarchesco, ma con un abbassamento di tono che rimarca l’assenza di una verità univoca, pacificante, si sviluppa in un crescendo paradossale, tra luoghi indeterminati e inumani, in cui il dialogo del protagonista con altre ombre (con il responsabile di una fantomatica Agenzia che sembra “una trasparente medusa che avviluppava le cose senza mostrare il suo centro”; con una donna, cliente dell’Agenzia, che si ostina a rivedere in lui il marito scomparso, in un gioco perverso di realtà e finzione; con allievi e colleghi; persino con le frequentatrici di un locale per scambisti dove, simbolicamente, occorre indossare una maschera fittizia per riconoscere in se stessi e negli altri il barlume languente di un’identità e un’appartenenza) rivela i contorni di una solitudine sconfinata e paradossale.
E forse il paradosso sta in questo: in un mondo che, al culmine della sua parabola scientifica e tecnologica, scopre con impassibile disinganno che la sua consistenza è ormai ristretta alla superficie esile e inscalfibile di uno specchio incrinato su cui la scienza, con le sue verità relative, friabili e intercambiabili, continua a disegnare ipotesi che hanno l’unico effetto tangibile di destrutturare l’umano, dopo aver via via banalizzato il mistero, il sacro, riducendo il dubbio a un arido scetticismo e la curiositas a un cinico sperimentalismo che confonde realtà e virtualità, desiderio e ostentazione di una mancanza, vita e morte.

Non sarebbe esagerato del resto paragonare l’io narrante e il suo collega Pampaluga a due discepoli del pirandelliano teosofo Anselmo Paleari, inventore della lanterninosofia, dal momento che anche loro portano in sé la consapevolezza di chi ha sperimentato nello strappo di un cielo di carta (che al tavolo di una friggitoria si declina nella variante seriocomica di un pianeta Terra somigliante a un arancino, con una crosta fragile e un nucleo incandescente, sperduto nell’universo infinito) l’assenza di ogni certezza e di un sentimento religioso della realtà.
Venuto a mancare il dubbio, in quest’epoca di false certezze, ciò che resta è lo scetticismo bulimico di una ragione che intorcendosi nei propri ragionamenti complessi e inconcludenti raggiunge un grado estremo di epurazione, che proietta il pensiero nell’aporia, la prassi umana nell’inconcludenza, l’ora di lezione a un chiacchiericcio caotico e inconcludente, il senso morale nell’assenza di una morale.

Se non li vediamo, come facciamo a essere sicuri che ci sono?” ribattono con esasperato cinismo gli allievi del professore, interrompendo la sua svogliata dissertazione sui buchi neri e altri misteri dell’universo. Forse troppa chiaroveggenza porta all’errore, che non è un semplice contrario della Verità, ma un insonne vagare nel vuoto, in quel buco nero che è la vita non più assistita da alcuna fede nell’uomo, sigillata nell’autoreferenzialità confortevole di una ragione che produce solo mostri. Come se la scienza, ultima dea sopravvissuta al disastro, avesse raggiunto ormai un tal grado di autonoma e indipendenza da ogni valore umano da poter ridurre la vita, e il destino stesso della civiltà umana, all’esito indifferente di un esperimento.

A questo punto è la notte? Dopo Lo stato di ebbrezza e le ultime indagini di Soneri contrassegnate da un sempre più incalzante disorientamento del protagonista a muoversi nelle topografie di un mondo indecifrabile, in caduta libera nel caos e nell’indistinto, scarnificato ormai finanche delle sue topologie più elementari e concrete (come osservava lucidamente Italo Calvino già qualche decennio fa), in questo romanzo uscito in libreria nel tempo di una pandemia epocale e stravolgente, Valerio Varesi sembra aver raggiunto l’apice dello sperdimento attuale in cui siamo come annullati (“l’ora buca” del titolo è evocativa di una “vacanza” che è per l’appunto un vuoto in cui è più facile perdersi che ritrovarsi); il germe profondo e invisibile di una malattia dell’anima, più potente (e prodromica) di ogni virus, in cui l’uomo, assediato da troppe verità compulsive e respingenti, disertato dal dubbio, continua imperterrito a costruire la propria distruzione, trovando in se stesso (contrariamente ai precetti di un antico proverbio), nella verifica compulsiva del proprio limite, gli elementi del proprio disastro, piuttosto che i semi di una rinnovata salute.

Tra esperimenti di criogenesi, campi militari dove ci si allena alla fatica e al sacrificio rimossi dalla civiltà moderna, e laboratori asettici dove l’identità umana viene sottoposta a infinite manipolazioni e adulterazioni (e così il destino), tutta la storia, che ha il ritmo incalzante e ipnotico di una discesa immobile in un abisso che cresce intorno a noi, parrebbe simulare l’osservazione al microscopio di un esperimento scientifico sulla materia: sollecitata, forzata, stimolata con continui strappi, urti, e pressioni, per indagarne la resistenza, le possibilità estreme; o piuttosto per certificarne il vuoto nullificante, l’inconsistenza di detrito, nella cenere che resta?

UN PROFESSORE PRIVO DI CERTEZZE SCIENTIFICHE

Valerio Varesi

DA ALLORA, tale fenomeno non è cessato, divenendo in poco tempo una delle caratteristiche quasi irrinunciabili di un buon noir. Quest’ultimo, infatti, è forse il genere che più ha cercato di diventare strumento di indagine del cambiamento sociale. Per rimanere all’interno del nostro paese ed entro i confini del genere, autori come Massimo Carlotto, Giampiero Simi o Tersite Rossi sono soltanto alcuni tra i rappresentanti più significativi di tale tendenza.
Anche Valerio Varesi, con i romanzi dedicati al commissario Soneri, ad esempio, ha sempre cercato di far emergere una descrizione del sostrato socio-economico e non soltanto ambientale delle vicende e dei luoghi in cui si svolgono le storie narrate. Bisogna dire, però, che con la sua ultima fatica, il romanzo L’ora buca (Frassinelli, pp. 328, euro 17, 50) lo scrittore di Parma si è spinto molto più avanti nella disamina critica della realtà e nel discorso politico conseguente. Si tratta di un’opera difficilmente definibile e lontana dai suoi altri scritti: non è un’inchiesta né il racconto di episodi storici recenti.

QUELLO CHE, però, resta immutato rispetto alle altre opere è la capacità di raccontare di Varesi, la semplicità e al contempo la raffinatezza della sua scrittura, la suspence che si sprigiona dalla narrazione, tenendo il lettore avvinto e quasi incatenato alla pagina. E poi, la vividezza interiore dei personaggi, che appaiono davvero reali, con il proprio carattere e complessità interiore e non solo nel caso del protagonista e di quelli principali. La storia, narrata tutta in prima persona, è incentrata sulla figura di un professore di liceo di materie scientifiche. Irrequieto, insoddisfatto della propria condizione, si sente ancor più sfiduciato nel dover «vendere» come certezze tesi scientifiche che per loro stessa natura sono confutabili. E doverlo fare, per di più, ad adolescenti che già di loro sembrano non possedere alcuna certezza. Questa sua situazione, i suoi dubbi, le sue insicurezze, emergono nei discorsi che i protagonista fa durante le ore buche, con un suo collega, il prof. Pampaluga, anche lui insegnante di scienze, che condivide i dubbi dell’amico ma riesce a comportarsi in maniera più cinica in quanto è totalmente preso dal rapporto, a dir poco inconsueto, con la moglie. Pampaluga, infatti, incontra la sua donna solo in un club per scambisti o in altre situazioni simili, senza mai avere la certezza che riuscirà a trovarla o che si tratti proprio di lei.

MENTRE STA CERCANDO un lavoro che possa soddisfarlo maggiormente, il protagonista, di cui non sapremo mai il nome, entra in contatto con l’Agenzia, un’organizzazione che lavora nel campo dell’immaginario, che è convinta che la realtà sia ormai completamente sostituita dall’immaginario. Il suo primo lavoro è impersonare il marito morto da poco per una vedova che si rifiuta di accettare tale realtà.
Un po’ alla volta il professore inizia a conoscere sempre più a fondo l’Agenzia, i suoi metodi, i suoi obiettivi. Passa poi a organizzare una campagna diffamatoria, a base di fake news nei confronti di un magistrato. Il suo coinvolgimento diverrà sempre maggiore fino a una conclusione davvero poco prevedibile e davvero «cattiva» se ci si riflette un po’. A metà tra un sano «complottismo» non alla Quanon o alla No-vax, ma tipo i romanzi di Tersite Rossi e, per un altro verso, alla fantascienza distopica nobile – alla 1984 – o a V per vendetta, il nuovo romanzo di Valerio Varesi oltre a rappresentare una lettura coinvolgente e intrigante, spinge davvero a riflettere e a interrogarsi sui modi di funzionamento attuali della macchina sociale e sulle strategie di resistenza di un sistema sociale non soltanto intollerabile ma assolutamente insostenibile.

L’ORA BUCA

Recensione di Alberto Bertoni, professore di Letteratura italiana contemporanea all’Università di Bologna

La scuola è un campo di confronto, di dialogo intergenerazionale e di antropologia applicata che negli ultimi decenni ha portato alcuni dei nostri migliori narratori a esiti rilevanti: è il caso, almeno, di Lodoli, Starnone, Scurati, Veronesi. Alla compagnia si unisce ora Valerio Varesi, che in un’italianissima (ma non esplicitamente identificata) scuola superiore ambienta l’inizio del suo ultimo, riuscito romanzo: L’ora buca, edito da Frassinelli.

Varesi è noto al grande pubblico – non solo italiano, ma anche francese – per le avventure di un commissario di polizia, il parmigiano Soneri, che – nella sua originalità umana e professionale – è parente stretto del Maigret di Simenon. Per di più, Varesi è uno di quei rari autori che hanno preso le mosse dalla scrittura giornalistica e dal romanzo di genere per affinare sempre meglio le proprie qualità stilistiche e strutturali, alla fine diventando – oggi – uno degli scrittori italiani artigianalmente e inventivamente più credibili. La sua bravura al di fuori di Soneri l’ha già consolidata con la Trilogia di una Repubblica, pubblicata fra il 2011 e il 2015.

 

Nell’Ora buca, lo scrittore alza ulteriormente il tiro e centra alla perfezione il suo bersaglio, per la capacità, che aveva finora dissimulato, di intrecciare fondamento conoscitivo (a proposito della veridicità del discorso scientifico, tema scottante nell’attuale pandemia), denuncia civile e capacità di coinvolgere il lettore attraverso le tecniche del thriller. “Niente è invalicabile e tutto in mutamento” e poi, di seguito, “La scienza è in continua confutazione”: sono le due sentenze che racchiudono in sé il sugo della prima parte della storia, quella imperniata su una sorta di efficacissimo dialogo platonico, dove in gioco è la verità del racconto scientifico, fra il Narratore, professore di Fisica, e il suo collega Pampaluga: un dialogo magistrale per forza paradossale e satirica di humour, che si consuma nelle ore buche dell’attività di insegnamento, mentre attorno si aggira il bidello tabagista Mario.

Questo è solo il presupposto, perché poi Varesi si avvale della sua sapienza nel trasmettere al lettore forti effetti di suspense, dal momento che nei capitoli successivi la vicenda si dipana fra psicologie complicate (come quella di Gina, la deuteragonista femminile), colpi di scena a ripetizione e presenza di una misteriosa Agenzia, nelle cui oscure trame il Narratore viene implacabilmente coinvolto. Definire L’ora buca un giallo filosofico equivarrebbe a inscatolarlo in uno schema espressivo inadatto a contenerne l’interna complessità, la varietà e la felicità tutta cinematografica di dialoghi incalzanti e credibili.

Narrarne anche per sommi capi la trama equivarrebbe a sottrarre al romanzo il gusto della sorpresa e di quel succedersi di angoli visuali e tradimenti, falsificazioni da occultare e verità da conquistare, che ne costituiscono la nervatura più intima. Basti soltanto aggiungere, qui, che filo conduttore è una ricerca estesa a piani molteplici di realtà, da quello educativo a quello erotico: ma asse del romanzo è un’inesausta ricerca d’identità, nella constatazione che i caratteri umani sono per forza di cose frammentari e contraddittori. E, quali modelli primi di questo Varesi che gioca e vince una scommessa molto alta, sovvengono allora il Pirandello di Uno, nessuno e centomila e lo Schnitzler di Doppio sogno (mirabilmente trasformato in film dall’ultimo Kubrick). Il fondamento e l’ambizione dell’Ora buca perseguono infatti un obiettivo primario di conoscenza, narrando una storia ben congegnata e inquietante.

Alberto Bertoni

Valerio Varesi “L’ora buca”

Valerio Varesi 

Valerio Varesi “L’ora buca”
Frassinelli Editore

https://www.edizionifrassinelli.it/

Questo è un libro che nasce per raccontare la nostra crisi culturale. Volevo parlare della scomparsa dall’odierno orizzonte, di qualsiasi visione prospettica di media-lunga durata. In definitiva dell’assenza di un progetto sociale e di un’idea di società. Il dominio dell’apparenza e della soddisfazione immediata è ormai totale sia in politica che nelle aziende. Ciò consente, specie in politica, l’emergere di parvenu totalmente incompetenti sia sul piano culturale che sul piano amministrativo. In questo si è innescato un processo secondo cui chiunque può fare tutto. Un principio mirabilmente riassunto nei programmi demagogici della politica di oggi che arriva a prospettare l’estrazione a sorte degli amministratori. Ecco che mi è balenata l’idea di raccontare l’ascesa e la decadenza di una di queste meteore, un insegnante che non vuole morire nell’anonimato e decide di soddisfare il proprio desiderio di notorietà. Nel mondo massificato dove gli individui non contano niente, nel livellamento globale, l’unica salvezza è distinguersi, essere riconosciuti perché siamo sconosciuti a noi stessi. Mettendoci una maschera di notorietà possiamo coprire il vuoto che ci spaventa e avere un ruolo. Per ottenerlo siamo disposti a sacrificare anche la nostra vita. Ho voluto così rappresentare il mondo d’oggi. Il mondo in cui le sorti di molti Paesi sono in mano a personaggi così ambiziosi dall’aver iniziato il proprio percorso nei giochi a quiz televisivi o percorrendo il mondo dell’economia prescindendo da qualsiasi scrupolo.

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Valerio Varesi, nato a Torino nel 1959, vive a Parma e lavora nella redazione de la Repubblica di Bologna. Romanziere eclettico, è il crea- tore del commissario Soneri, protagonista dei polizieschi che hanno ispirato le tre serie televisive Nebbie e delitti con Luca Barbareschi. I romanzi con Soneri sono stati tradotti in tutto il mondo e nel 2011 l’autore è stato finalista al CWA International Dagger, il prestigioso premio per la narrativa gialla. Nel 2017 ha vinto il premio Violeta Negra per il miglior romanzo noir.

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L’ora buca di Valerio Varesi

L'ora buca

È tutto così leggero, fragile, confuso. E noi a svolazzare orbi lanciando grida a cui rispondono solo i muri. Come i pipistrelli.

In un mondo in cui l’esistenza è legata all’apparenza, fino a dove può spingersi un uomo per uscire dall’anonimato e lasciare una traccia di sé dopo la morte? Durante l’ora buca un professore di fisica, non a caso senza nome, disquisisce con il collega Pampaluga sulla precarietà della condizione umana. “Siamo stati sputati fuori con un colpo di tosse da una spaventosa gola nera senza fondo.”Insegnare fisica in un liceo porta alla disperazione.” Costringe a sentirsi insignificanti, trascurabili, inutili. E a trasmettere la stessa frustrazione ai ragazzi, come untori che diffondono disincanto. Mezzeseghe, dice Pampaluga. Definizione che finisce per tormentare il Professore, come una sorta di ossessione. Vuole lasciare la scuola, stanco di disilludere adolescenti ignari della precarietà dell’uomo e si imbatte nell’Agenzia, che dopo un colloquio, lo sottopone ad una sorta di iniziazione, affidandogli incarichi per testarne le abilità. La prima prova consiste nell’ indossare i panni del marito defunto di una vedova inconsolabile. Poi dovrà distruggere la reputazione di un giudice incorruttibile con l’uso spregiudicato di fake news costruite a tavolino. Nel frattempo approfondirà la conoscenza delle attività dell’Agenzia. Superate con successo le prove di iniziazione, l’Agenzia lo accompagnerà verso la notorietà agognata. Dovrà spogliarsi di ogni rigurgito di etica ma la rivalsa dall’anonimato, per il professore, non ha prezzo.

L’ora buca è stato catalogato come distopia da chi è solito apporre etichette alle opere letterarie. Non sono del tutto d’accordo: non definirei distopica questa lucida e feroce analisi di una società, la nostra, che privilegia l’apparire all’essere, in cui il destino dei singoli prevarica l’interesse collettivo. Gli individui che svolazzano lanciando grida a cui rispondono solo i muri, come fossero pipistrelli, evocano la solitudine esistenziale conseguente alla crisi valoriale degli ultimi decenni. Le esperienze fasulle, le emozioni forti che lasciano incolumi richieste dai clienti, sono il passo successivo al mondo virtuale che già sostituisce le esperienze vere. L’uso utilitaristico della politica, non più ideale, governo delle nazioni ma un mezzo per esercitare potere, per soddisfare ambizioni, non è invenzione narrativa, così come non lo è il consumo usato come anestetico per impedire il pensiero. Arguta la riflessione sull’uso strumentale della tecnologia, droga del nostro tempo, più efficace e precisa di ogni sostanza stupefacente. Il protagonista, che si spoglia di scrupoli ed etica per fame di ambizione, ha molto in comune con Domenico Nanni de “Lo stato di ebbrezza” ed è l’opposto dell’onesto Fernando Savani de “Le imperfezioni”, in una progressiva deriva morale dell’individuo.

La prosa elegante di Varesi si affina ad ogni romanzo. Colpisce la perfezione dei dialoghi e l’originalità di similitudini e metafore. “L’ora buca”, seguito ideale de “Lo stato di ebbrezza”, è un’analisi sociale lucida, arguta, amara e cinica. Un pugno allo stomaco. Forse, per ora, il capolavoro dell’autore.

Monica Pedretti

RECENSIONE DE “L’ORA BUCA” DI ALESSANDRO CASTELLARI

Quest’ultimo romanzo di Valerio Varesi sembra avere la forma retorica di un’iperbole. Ma in letteratura l’iperbole (da Rabelais in poi) è spesso un cannocchiale che ingrandisce e mostra vicine le cose lontane o non ancora imminenti. La voce narrante del protagonista che prende parola dopo “l’attimo più bello di un’intera vita”, quello in cui una donna gli spara e forse l’uccide; questo modesto professore di fisica dalla vita inconcludente e forse superflua che vince le elezioni e diventa capo del governo; lo squallore dei club di scambisti dove però si ascoltano parole intelligenti e desolate sulla “genetica del nostro subconscio” o sul valore simbolico del linguaggio: questa è l’iperbole romanzesca che utilizza Varesi.

L’ora buca ti avvicina dunque a cose che possono costituire il nostro prossimo futuro con un’amplificazione che un po’ ci spaventa con la loro… grottesca verisimiglianza, se così si può dire.

Prendiamo l’Agenzia a cui il nostro professore si affida per uscire dall’anonimato (a proposito: ha un senso che di lui non si sappia nulla della sua vita e neppure se ne conosca il nome): è un’organizzazione che sta fra la mafia, la loggia massonica, l’agenzia che organizza un virtuale onnipotente, la Bestia di Salvini. Ma quello che è veramente importante è che anche il potente Tomassoni, quello che dirige il professore, non sa molto dell’Agenzia: essa non ha volto e si trova in tanti luoghi; è un potere globale e per questo impalpabile. Non c’è proprio nessuno fra i tanti suoi addetti ed adepti che conosca il fine del proprio lavoro. È esattamente il ruolo che assume il lavoro, performativo settoriale e cieco, nell’età della tecnica, come ribadiscono continuamente filosofi e psicoanalisti come Galimberti e Severino. Insomma, “un sapere che è fuori dai cervelli”, la più radicale forma di alienazione.

Prendiamo la parte più intensa del romanzo, quella del rapporto sullo schermo fra il professore e Gina, la vedova inconsolabile. Un dialogo continuo e alla fine coinvolgente per entrambi tutto giocato fra il virtuale e il reale, fra il vero e il falso. E non c’è nulla di più falso di ciò che è vicino al vero. “Una lavagna in cui lei [ma chi è lei?] scrive e cancella continuamente i suoi sentimenti”, e lo schermo attraverso cui dialogano sconfigge la materialità dei corpi, tanto che le presenze ambigue e viziose dei club degli scambisti sembrano quasi offrirci un soffio di vita vera.

Dicevo della materialità dei corpi. Il dialogo iniziale del protagonista col collega Pampaluga sulla cialtronaggine della scienza con le sue ipotesi fluttuanti, sulla materia oscura di cui nulla si sa stabilisce una opposizione radicale con gli alunni che, guardando dalle finestre, vedono passanti, auto e case: cose sicure e materiali rispetto alle menate intellettuali dei loro professori. Così il vero eroe antagonista è il bidello Mario che fuma beato le sue sigarette in cortile, che viene da un mondo solido con dentro “il granito di un’educazione semplice”, che si tromba tranquillo alcune professoresse insoddisfatte e malmostose. Nel centro logistico operativo dell’Agenzia, dove è raccolta per via informatica la massa enorme della comunicazione elettronica vien voglia di fare il tifo per i topi che possono mangiare i cavi e mettere in crisi il sistema. Sì, i topi e il bidello Mario ci possono salvare ancora per un po’ con la loro realtà corporea dalla smaterializzazione che ci attende.

L’ora buca è anche un manualetto di istruzioni (ma non un bugiardino) sul futuro politico prossimo venturo. In un contesto di gente che urla la propria insoddisfazione e che ha bisogno di un capo che prenda il comando dello scontento alimentando paure e sogni, di fronte alla desertificazione dello Stato, bisogna pur credere che ci sia un passaggio semplice e popolare verso una maggiore “democrazia”: ciascuno per sé e un capo per tutti. Ecco allora il Movimento creato dall’Agenzia, una scatola vuota in cui si può mettere tutto ciò che si vuole, basta saperla raccontare bene, perché il potere si fonda su una narrazione convincente. Frasi semplici, orecchiabili, quelle che la gente vuole sentire e può memorizzare. Fine della complessità, fine del dubbio, fine della ragion critica. Quando per il nostro eroe inizierà la fase discendente nei sondaggi e le sue comparse in tv diventeranno sempre più impacciate, egli verrà sostituito (seguendo le indicazione dei sondaggisti, dei pubblicitari e di ogni altro esperto del settore) magari da una donna di mezza età, ancora piacente, rassicurante e materna, e il nostro eroe potrà essere eliminato.

Varesi con la sua prosa limpida e ricca di immagini ci porta sempre dentro alle poche luci e alle molte tenebre del mondo contemporaneo: nel Rivoluzionarionello Stato di ebbrezzama anche nei noir del commissario Soneri, nonostante la delizia dei paesaggi delle nostre parti e degli anolini in brodo.

 

Alessandro Castellari

Valerio Varesi – L’ora buca

Editore Frassinelli
Anno 2020
Genere thriller
336 pagine – brossura e epub


Valerio Varesi, scrittore – ideatore della fortunata serie con protagonista il commissario Soneri – e giornalista de La Repubblica, torna alle stampe con “L’ora buca”, edito da Frassinelli.
“L’ora buca” per me è stato un libro molto impegnativo, è un libro che non dà tregua, ogni pagina fornisce spunti di riflessione e i dialoghi tra i protagonisti hanno un livello molto alto.
Non è stato facile buttare giù le mie impressioni perché tecnicamente non ho la forza narrativa e di analisi necessarie per raccontare questo libro così importante e notevole. Ci vorrebbe un’analisi tecnica-politica-filosofica, almeno. Non avendo questa capacità le mie impressioni saranno il frutto del mio sguardo da spettatrice della realtà che ci circonda.

La prima cosa che mi ha colpita è il fatto che il protagonista che racconta in prima persona la storia non ha un nome. I co-protagonisti si, lui no. Mi sono chiesta il motivo di questa scelta e ho pensato che non ha un nome perché ognuno di noi potrebbe essere lui. Ognuno di noi potrebbe trovarsi nella sua situazione. Lui è un insegnante e insoddisfatto della vita che conduce. Come molti.
“Per i ragazzi siamo noia e per i genitori una spesa inutile. Ci sopportano solo perché intratteniamo i loro figli almeno mezza giornata. Un professore o una babysitter non fa differenza.”

L’inutilità che spesso lo coglie quando è con i suoi alunni, la consapevolezza di non essere guardato e ascoltato con la giusta attenzione. Il disagio che prende sempre più piede e porta a cercare delle vie di uscita. Vie d’uscita che pensiamo essere salvifiche ma che nella realtà ci intrappolano ancora di più, incastrati in un sistema che disintegra le persone, le rende contenitori dove riversare concetti, pensieri e desideri inutili. Quel sistema ci convince invece che quei concetti, quei pensieri e quei desideri siano fondamentali, per noi e per la conduzione della nostra vita. Il nostro professore si ritroverà ad affrontare una dinamica allucinante, proprio perché convinto del fatto che vuole cambiare la sua esistenza barattandola con una che gli fornisca visibilità e successo, contro quella attuale che lo relega a controfigura di se stesso e non gli procura nessuna soddisfazione.

Per realizzare il suo obiettivo il protagonista entra a far parte di un’Agenzia. E prima di realizzarlo, verrà utilizzato per attuare i desideri di altre persone. Utilizzato per poi poter essere pronto a conseguire il suo di desiderio.
… Mi ha spiegato che l’Agenzia ha molti collaboratori in svariati settori e che tutti sono ben pagati. “ Come tanti professionisti cui noi diamo incarichi tenendoci una parte degli utili”, – ha chiarito. – “Ma a lei non credo interessi più di tanto il danaro” -, ha detto studiandomi. – “No, infatti”, ho confermato io. “Quel che basta per campare senza affanni.” Tomassoni ha sorriso: “Capisco”, ha annuito, “questo la rende un tipo interessante”.
“E’ per il fatto che non ritengo di esserlo che sono qui.”
“Lo so, lo so…” ha ripreso l’uomo come se fosse un’ovvietà.
“Però deve prima entrare nello spirito dell’Agenzia, capire come agiamo. E farlo per gradi. Lavoriamo nel campo dell’immaginario… Finora l’immenso territorio del virtuale è stato sfruttato per cose ridicole. Ci hanno fatto pascolare qualche mucca e rivoltato le zolle. Noi stiamo costruendoci un’industria.”

L’apprendistato del protagonista sarà proficuo, si comporterà molto bene, è ben predisposto verso questa nuova attività, ha tutte le capacità giuste, riesce a districarsi nel migliore dei modi. In una certa situazione contribuirà in maniera efficace dando il giusto input. L’Agenzia ha necessità, per favorire una persona, di fermare un magistrato non compiacente. Bene, il nostro professore avrà lo spunto giusto per creare una campagna denigratoria costruita ad hoc per stroncare la carriera, la dignità e l’autorevolezza di quel magistrato. E ci riusciranno. Tutti punti a favore del protagonista che a questo punto è pronto per fare il salto di qualità.
L’autore ci mostra come viene creato un personaggio, cosa fargli dire, cosa fargli fare, come vestirsi, come atteggiarsi, come porsi nei confronti delle persone. Tutto è costruito a tavolino, discusso, valutato, provato. L’immagine che vediamo è frutto di una tattica, di qualcosa di prestabilito che ha come scopo quello di raggiungere e convincere la massa, quella massa che si fa guidare verso quello che il Sistema vuole, facendole credere però che a decidere sia lei.
Ma al minimo errore il personaggio costruito paga e paga amaramente. Così come è stato costruito, viene demolito. La sua quotazione scende e in qualche maniera deve essere allontanato e cancellato. E’ una demolizione anch’essa costruita ad hoc. La fine scelta è allucinante e il paradosso è che il protagonista è felice della sua fine perché prima di tutto ha raggiunto il suo scopo. Il resto non conta. E’ un finale che lascia esterrefatti. E non siamo lontani da una realtà che sta prendendo sempre più piede nella nostra società.

“L’ora buca” è un libro distopico e come i libri distopici ci racconta una realtà estremizzata agli eccessi che però non si allontana di molto da quello che ci circonda.
Una società in cui la realizzazione dei propri desideri è talmente fondamentale da farci perdere però il senso della realtà, una società in cui è tutto troppo veloce. L’informazione, qualunque essa sia, ha bisogno sempre di un ricambio repentino, ci stanchiamo subito e abbiamo bisogno di qualcosa di nuovo sempre. Una società che costruisce a tavolino persone e situazioni, che fa credere che sia tu pubblico a scegliere e invece non fa altro che subire, non deve pensare, non deve riflettere, deve pensare di essere felice ed appagato.
“L’ora buca” ha tantissimo altro al suo interno, ripeto, è una riflessione continua su diversi argomenti, tutti interessanti, è un descrivere in maniera autorevole e professionale la realtà di cui facciamo parte. Varesi lo fa con lo sguardo da scrittore e da giornalista, da testimone qualificato della cronaca politica, economica, sociale che viviamo quotidianamente.
A fine lettura mi sono chiesta se abbiamo tempo per recuperare i nostri errori o se la deriva ormai è inevitabile. Il degrado è talmente alto che propendo per la seconda opzione.
I libri come “L’ora buca” dovrebbero servire proprio a farci aprire gli occhi, a farci rendere conto che è in nostro potere cambiare le cose, se solo lo volessimo davvero.

Cecilia Dilorenzo

La Debicke e… L’ora buca

Valerio Varesi
L’ora buca
Frassinelli, 2020

Valerio Varesi aveva preannunciato questo libro come un figlio dell’attuale crisi culturale, un libro di rinuncia, di rabbia di fronte all’impossibilità di una purchessia visione sociale a breve. Insomma l’impossibilità di pensare a un progetto o a un’idea valida di vita in un mondo, quello di oggi, dove la sovranità dell’apparenza e dell’immediato appagamento sono al top ovunque si guardi. Tra la gente, nel sistema o in azienda, i valori sembrano pronti ad essere spazzati via dalla paura e invece conta solo l’esplosione mediatica di un attimo, un’ideale supernova. Lo si vede in ogni situazione, anche in politica, con il frenetico e osannato boom di nuovi incompetenti e la futura prospettiva del tirare a sorte coloro che dovranno governare. Si assume il dogma che tutti sappiano fare tutto. E, per spiegarcelo, Valerio Varesi, a suo buon modo, ha deciso di raccontarlo con il successo e poi la rovina di una di queste supernove, un anonimo professore di fisica, definito solo il Professore, che si sente vuoto, inutile e vorrebbe appagare la propria ambizione. Per farlo dovrà asservirsi alle perverse regole del gioco per raggiungere la fama. Anche a costo di sacrificare tutto, persino la vita.

Nell’aula professori, due insegnanti di materie scientifiche di una non meglio identificata scuola superiore, comunque un liceo, durante le ore buche dagli orari di lezione discutono e fanno colazione a base di fumanti arancini sotto lo sguardo accomodante del bidello Mario. Lui, la mezz’età onnipresente, godereccio, so tutto e, forse, appagato dalla vita. Il protagonista della storia di Varesi, il Professore, spiegherà cervelloticamente al collega, afflitto dal ridicolo cognome di Pampaluga, come rapportare la loro attuale condizione umana a quella di un pianeta, paragonabile a una specie di arancino (crosta fragile con centro incandescente) che vaga nell’universo infinito. Per lui insegnare sta diventando sempre più difficile e quasi impossibile attenersi al programma. Non gli piace rivendere con granitica certezza leggi fisiche oggi comunque confutabili da allievi – strano direte di questi tempi e invece – attenti curiosi, consapevoli e che amano contestare a parole e discutere la materia. Insomma vegeta, lavorando con poca convinzione, e con il collega Pampaluga, in crisi matrimoniale, si lascia trascinare per pigrizia in lussuosi locali di scambisti, finché non riceve un’offerta molto particolare da una misteriosa Agenzia. L’Agenzia per cominciare gli propone un lavoro part time, tramite il quale potrebbe rimpolpare le sue finanze, per poi puntare più in alto, magari arrivare a conquistare un posto di alto livello nel mondo.
Ci riflette, accetta; il primo di una serie di complicati test e prove pratiche da affrontare, sarà indossare l’identità di un morto, avvalendosi di sofisticate tecniche virtuali, per poter consolare Gina, bella vedova capricciosa poco più che cinquantenne, che vuol tenere in vita il marito senza ricorrere a una medium. Il secondo test, forse più crudele e impegnativo, lo metterà alla prova in un compito compromettente: distruggere completamente la reputazione di un integerrimo giudice che, con le sue indagini, intralcia il cammino della politica. Il Professore ci riuscirà costruendo e diffondendo un sofisticato ventaglio di fake news. Niente di più facile, sappiamo tutti quanto danno possano fare e anche se poi vengono smentite…
Insomma questi primi successi saranno per il Professore la piattaforma dalla quale lanciare la sua nuova carriera. Non importa se la scuola l’ha messo in congedo per uno scontro ideologico-religioso con un ragazzo, ormai lui è in pista, pronto per decollare. Ma accontentare tutte le complicate richieste dell’influente ma inquietante Agenzia non sarà facile. E il patto stretto dal Professore è molto rischioso e prevede un prezzo altissimo da pagare.

L’ora buca è una metafora dell’odierno vuoto esistenziale. In un mondo in cui l’essenza vitale troppo spesso è solo legata all’immagine, ci narra cosa può arrivare a fare un uomo e quali limiti può decidere di valicare, pur di farsi conoscere e sfuggire alla costrizione dell’anonimato, toccare la celebrità, lasciare una traccia tangibile dietro di sé. In L’ora buca, vero capolavoro del genere dissacratorio, Valerio Varesi ci spiega, con bravura e crudele ironia, cosa può riuscire ad accettare il suo protagonista, a cui addirittura rifiuta di dare un nome, e con lui una certa pseudo umanità che gli pone a fianco, pur di emergere a ogni costo. Niente giallo stavolta, molto caro a Valerio Varesi, che tuttavia ci vizia con un romanzo acuto e intelligente che scava a fondo in certe oscure miserie umane pur facendo l’occhiolino al fantascientifico. Un romanzo contraddistinto come sempre dalla sua elegante scrittura e ma anche dalla sua feroce e talvolta spiazzante analisi sociale.

Valerio Varesi, nato a Torino nel 1959, vive a Parma e lavora nella redazione de «La Repubblica» di Bologna. Romanziere eclettico, è il creatore del commissario Soneri, protagonista dei polizieschi che hanno ispirato le tre serie televisive Nebbie e delitti con Luca Barbareschi. I romanzi del commissario Soneri sono stati tradotti in tutto il mondo. Varesi ha inoltre pubblicato per Frassinelli La sentenza e Il rivoluzionario, con cui ha iniziato una propria personale ricognizione della Storia. Lo stato di ebbrezza conclude questo percorso, arrivando fino ai giorni nostri.

Da The Blog Around The Corner

 

 

 

L’arancino su cui camminiamo

L’ora buca, di Valerio Varesi (Frassinelli 2020) di Alessandra Calanchi

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Sono sempre stata affascinata dalle supposizioni più o meno fantascientifiche riguardanti il nostro pianeta, a partire dalla teoria della Terra Cava, molto in auge nell’Ottocento, fino alla fantasia della Terra Piatta, che conta tuttora adepti dotati di testarda immaginazione, passando per la Terraformazione, che è un modo bizzarro di definire la clonazione di nuovi pianeti sul modello del nostro (come se ne valesse la pena). Ma devo ammettere che l’immagine che ci regala Varesi nelle prime pagine di questo suo nuovo, intrigante romanzo – la Terra come un arancino – mi ha definitivamente conquistata.

A parte l’implicito omaggio ad Andrea Camilleri, indimenticato e indimenticabile, e alla mitica signora Adelina, devota nutrice del ghiotto Montalbano, la Terra-arancino è una perfetta metafora esistenziale del nostro qui-e-ora, un pezzo glorioso di italianità destinato al consumo rapido e alla digestione ineluttabile, ma anche superba metafora esistenziale che collega la Sicilia al cosmo, un Professore di scienze (che sembra uscito da Il pianeta di Mr Sammler) ai mille programmi gastronomici che ci propina quotidianamente la TV, una pratica politica fatta di traguardi alla “precarietà di sentirsi sotto tiro”.

Meravigliosi gli studenti del Professore, che – diversamente dal pregiudizio diffuso che considera tutti i millennials un gregge di giovani apatici e disinteressati – si buttano in discussioni argute ed estremamente consapevoli. Commovente il collega del Professore, che ricerca nell’utero post-materno di Club molto privato (erede evidente del celebre masque di Edgar Allan Poe, soprattutto in tempo di pandemia) l’emozione più perversa di tutte: ricongiungersi, mascherato, con la propria moglie. E che dire della misteriosa signora Gina, vedova consolabile e capricciosa che tiene in vita il marito senza bisogno di ricorrere a una medium – o meglio, il medium c’è, ed è il messaggio, come diceva Marshall McLuhan. Messaggio incarnato (o disincarnato) dal Professore stesso, che nel tempo libero (ma quanto ne hanno i docenti nei romanzi?! Fosse così nella realtà…) accetta da una segretissima Agenzia un incarico bizzarro: trasformarsi nel marito defunto di lei, prima solo tramite la voce, poi anche col volto – una metamorfosi identitaria non priva di rischi, ma resa inevitabile (e non solo possibile) dal maquillage virtuale delle nuove tecnologie.

Man mano che si procede nel testo gli incarichi aumentano, cosicché finiamo per entrare – insieme al Professore – in un’altra mascherata, quella della nostra contemporaneità, di cui vengono messi a nudo alcuni dei risvolti più problematici e controversi, come il processo social-mediatico di costruzione della macchina del fango, l’intelligenza artificiale spazio-temporale, l’organizzazione della difesa nazionale. Sullo sfondo aleggia una disperazione collettiva che non trova più vie d’uscita: uno studente che cade da una finestra, operai suicidi, una ragazza malata che vuole ibernarsi per sfuggire alla morte e risvegliarsi – come nel Dormiglione di Woody Allen – in un’epoca di cui non si sa nulla, ma in cui certamente sarà possibile curarsi.

Per non fare spoiler mi fermo qui. Dirò solo che dalla schiuma di una scrittura impaziente e raffinatissima emerge il miglior Varesi, che si prende una vacanza dal tormentato commissario Soneri e strizza l’occhio a Brave New World, a Luigi Pirandello, al transumanesimo – ma anche a The Place di Paolo Genovese (2017), alla Dottrina del male di Alessandro Berselli (2019), e forse anche al primo episodio della seconda stagione di Black Mirror (“Be right back”, 2013).

È un Varesi che vuole scappare dalla museruola del giallo – e dai grigi della nebbia padana – per entrare nell’atmosfera più cupa del noir, quello vero, quello profondo, quello dell’anima che s’interroga e si decostruisce corteggiando la dannazione. Non importa se manca un detective riconoscibile, se il crimine è talmente diffuso da essere impalpabile e quasi irriconoscibile. Tutto ciò che svolge il Professore (perseguitato da un “inopportuno senso della giustizia”) ricalca pedissequamente lo schema dell’hard-boiled, dalla presa in carico dei problemi della dark lady fino al suo sprofondare sempre più nei meandri di una società amorale/umorale. E le sue tante telefonate a Gina, che costellano il romanzo e ne fanno il vero leitmotiv, non sono altro che la più moderna espressione dell’investigatore hammettiano e chandleriano che da P.I. (private eye, occhio privato) si è trasformato in private ear, orecchio privato. Del resto, la critica al mondo dell’immagine che ci ha resi ombre è palese e reiterata, e la caccia all’uomo del finale ci ricorda più quella di Fahrenheit 451 che la dissolvenza di Winston Smith nell’abbraccio del Big Brother.

Ho detto in privato all’autore che qualche virgola in più non avrebbe guastato. Ma ora voglio fare ammenda. Va bene così. Perché è un romanzo senza fiato, che va letto di corsa, come l’Urlo di Allen Ginsberg o il monologo di Molly Bloom. E tengo a precisare che, a dispetto dei vari cross-over da me segnalati, e anzi grazie anche a questi, il romanzo è di un’originalità e di un’attualità disarmanti nel panorama italiano e non solo. Infine: non pensate che l’arancino sia un’innocua versione in salsa local della più aulica madeleine proustiana – no, è un boccone prelibato che vi farà venire l’acquolina in bocca solo per rimanervi piantato in gola. Perché l’ora buca non è soltanto l’ora di pausa fra una lezione e l’altra, ma un grande buco nero pronto a inghiottirci, fatto com’è – che James Ellroy mi perdoni – dei nostri luoghi oscuri. E la Terra su cui camminiamo, la crosta di quell’arancino dal cuore filante, è (come ormai ben sappiamo) pronta a sbalzarci via, anzi: temo che non aspetti altro.

GLI INVISIBILI: GUIDO CONTI INTERVISTA VALERIO VARESI

 

 

Valerio Varesi, dopo Il fiume delle nebbie, uno dei suoi libri più famosi, torna con Gli invisibili, Mondadori, tra gli argini del Po. Un luogo a lui caro.

«Sì, il Po è uno degli ambienti che mi suggerisce molte emozioni. È un luogo letterario descritto da grandi autori come Guareschi, Zavattini, Bacchelli e, ultimamente, dal mio amico e conterraneo Guido Conti. Il fiume è una sorta di zona franca dove tutto può accadere. È il mistero, la mitologia, la brutalità delle alluvioni e la dolcezza dello scorrere placido della magra. Chi ci vive ha caratteristiche particolari tali da assumere la dimensione di personaggi veri e originali. Insomma, lo scenario perfetto per una storia noir a partire dalla nebbia.».

 

Soneri è diventato uno dei protagonisti della letteratura degli ultimi anni non solo in Italia.

«È un commissario schivo, poco incline ai formalismi, insofferente verso la vita delle questure impregnate di fumosa burocrazia e amante delle cose semplici come la cucina e i piatti parmigiani confezionati con cura dal suo oste preferito, l’Alceste del Milord. Ha una compagna avvocato, Angela, piuttosto combattiva che lo compensa nei momenti peggiori col suo pratico buon senso. Alle spalle ha qualche maceria, come tutti: una moglie morta mentre dava alla luce un figlio che non è mai nato».

 

Varesi ha imparato bene la lezione di Simenon, ha creato Soneri e i “romanzi romanzi” con la Trilogia di una Repubblica: La sentenza, Il rivoluzionario e Lo stato di ebbrezza. Due mondi e due forme di racconto.

«Credo che il giallo/noir, sia uno strumento efficacissimo per raccontare l’oggi, magari a partire da un fatto di cronaca che sia rappresentativo del nostro vivere. Il noir come romanzo sociale, non romanzo usa e getta, come troppo spesso accade oggi. Con la Trilogia ho invece provato a raccontare il nostro dopoguerra, dalla Resistenza alla caduta di Berlusconi. Il tutto in tre libri che raccontano ciascuno un pezzo di questo dopoguerra. Cerco di essere uno scrittore eclettico anche per non fissare la mia cifra narrativa su un solo genere».

 

C’è un elemento di novità nell’ultimo romanzo, Gli invisibili, una follia, un mistero che sfiora il gotico e il fantastico, che sembra una novità nel suo modo di narrare.

«Sì è vero. È il Po che me l’ha suggerito. Tuttora sopravvive una mitologia sulle sue rive che affascina e si tramanda. È la follia onirica che è suggerita dalla nebbia. Quando non vedi devi immaginare la realtà. La nebbia, la “fumana”, ha una dimensione straordinariamente creativa».

 

Varesi è uno scrittore della Bassa e della collina, dove ha ambientato alcuni suoi romanzi, ma Parma resta una città che ha narrato in una maniera nuova, con grande successo anche in Francia e in altri paesi.

«Parma è una città gradevole e insopportabile, colta ma spesso provinciale, “piccola Parigi” bertolucciana, ma chiusa e autocompiaciuta. Parma è una città che risente d’essere stata una corte con élites di grande livello ma anche cortigiani di bassa lega. È una città dove il melodramma ha improntato gran parte delle modalità di vivere dei parmigiani che amano l’ostentazione da palcoscenico. Sono il contrario dei vicini reggiani o mantovani molto più riservati e tendenti al silenzio».

 

Varesi s’immerge nei meandri della realtà. Nei suoi romanzi si va sempre oltre la trama, l’indagine. Ne Gli invisibili c’è un’attenzione ai personaggi ai margini, che restano nell’ombra…

«Io seguo la lezione di Simenon, di Scerbanenco, Gadda, Sciascia, Izzo e della scuola francese che oggi esprime Manotti o Carrère, vale a dire il romanzo che, attraverso un’indagine tradizionale, si immerge nei problemi dell’oggi. Papa Francesco ha detto che il pastore deve puzzare del suo gregge e io dico che chi scrive noir deve puzzare di realtà, scandagliarla sporcandosene le mani».

 

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VALERIO VARESI È STATO INSIGNITO DEL PRESTIGIOSO PREMIO LETTERARIO VOLPONI 2020

La critica a il mio “La paura nell’anima” di un fine letterato come Alessandro Castellari

 

In questo bel “Soneri”, a mio parere il migliore della serie, noi lettori siamo costretti a cercare “le cose più importanti”, non quelle delle indagini; e questa è una tendenza già manifestatasi in altri gialli di Varesi, quella di non far giungere alla banale evidenza logica dell’investigazione, come nei gialli classici, ma di farci inoltrare nel mondo ombroso ed inafferrabile del profondo.
A me pare infatti che siamo di fronte ad una doppia “ispirazione”: quella tratta dalle vicende di Igor nella bassa bolognese e quella depositata nelle stalle e nelle camere da letto delle nostre montagne: racconti di fate maligne, di folletti dispettosi, come Buffardello, che fanno riemergere in Soneri (in Varesi?) antiche paure.
La vicenda, ambientata a Montepiano nell’Appennino parmense, si muove attorno alla caccia di Vladimir che, uscito di prigione, ha ucciso un uomo a Colorno e forse si aggira su quei monti. Ma Vladimir è un personaggio trasformistico, “obliquo”, che s’aggira ovunque “come una ossessione”. Una delle qualità del racconto è quella di una caccia inutile a Vladimir, cosicché la sua è una figura sempre incombente e mai definita, come una figura del nostro immaginario, come l’ombra che noi stessi proiettiamo. Poi c’è la vicenda del ragazzo ucciso che si interseca con la vana caccia al serbo: il tutto in una comunità chiusa, quella di Montepiano, nella quale i segreti nascosti tracimano come il liquido di una botte piena sballottata da questi avvenimenti. Così il paese diventa un groviglio di sussurri, di paure, di risentimenti, di rancori, di ricatti, di vanità. È la fuoriuscita di un collettivo ed individuale rimosso non rielaborato.
Ciò nulla toglie alla più acuminata rappresentazione sociologica: l’assemblea col capitano Marrone dei paesani impauriti che chiedono sicurezza; l’acquisto tumultuoso di inferriate, faretti, serrature videocamere; l’imbandire la soglia di casa di vivande perché il bandito non entri a cercare cibo sono realtà deprimenti delle nostre cronache recenti.
Ci sarebbe da dire (e sarebbe l’aspetto di un testo nel quale di solito mi cimento più volentieri) anche della lingua e dello stile di questo “Soneri”: quegli inquietanti rumori notturni, l’ululato dei lupi, gli spari dei bracconieri, le voci e le grida sul crinale delle montagne, che creano un alone di paurosa inquietudine, resi da una prosa, quella di Varesi, così precisa nel nominare i suoni, le luci, le piante di quegli amati monti: “Un’ombra di alopecia sui pascoli, di erba lupina, di rododendri e mirtilli”.
Ma quello che ora soprattutto mi interessa è altro, è quel fondo “perturbante” su cui si basa tutto il racconto. Ci vogliono la solitaria guaritrice, la vecchia maestra e il vecchio sindaco in carrozzella ad indicarcelo. Antenice Rocchi ci dice che tutto è fatto della medesima sostanza: rocce, alberi, animali, insetti… Anemia ci rivela che la presenza/assenza di Vladimir intacca gli animi come la ruggine perché dà forma allo “spirito maligno che abbiamo dentro”. Olindo Benati è consapevole che “esistono cose che non possiamo dominare”, tanto che le fantasie e le paure sul serbo sono la proiezione dell’oscuro che ci abita.
Io non so se Varesi fosse pienamente consapevole che il suo La paura nell’anima aveva come tema esattamente il “perturbante”. A volte capita che i racconti vadano al di là delle intenzioni dei loro autori.
Freud, a proposito dell’Uomo della sabbia di Hoffmann, disse che quel racconto era “l’esempio perfetto” del “perturbante”. In tedesco la parola è Unheimliches , ed è parola quasi intraducibile. Ma se è vero che Heimlich vale per “domestico”, per ciò che è legato all’intimità più preziosa della casa, l’Un-heimliches è ciò che “turba” questo nucleo intimo. E lo turba, aggiunge Freud, proprio in ragione della sua vicinanza. Nella novella di Hoffmann “l’uomo della sabbia” (che, secondo ciò che dice al figlioletto la mamma, non deve sorprendere i bimbi ancora svegli, altrimenti li acceca gettando sabbia nei loro occhi) non è altro che Coppelius, un amico del babbo. Personaggio domestico ed estraneo al tempo stesso. Personaggio ambivalente e perturbante. Il “perturbante” freudiano è dunque quel non domestico, quell’ignoto in cui sentiamo risuonare qualcosa di domestico e di noto.
Vladimir è una figura dell’ombra, del doppio, del perturbante: è l’estraneo che temiamo e che ci assedia, e nel quale orribilmente troviamo noi stessi.

Recensioni al libro GLI INVISIBILI    

“Il commissario Soneri, per la sottile, arguta malinconia delle sue storie e lo sguardo da entomologo delle passioni umane del suo autore Valerio Varesi, è un vero Maigret della Bassa Padana.”

Giuliano Aluffi, Il Venerdì di Repubblica,

“Se l’indagine ruota intorno all’uomo senza nome, il libro esplora molto altro. Il rapporto padri e figli, anzitutto, che diventa scontro generazionale, tra il piccolo mondo antico dove il patriarca pur tra mille sopraffazioni conservava una sua umanità e i figli persi dietro il dio denaro. E poi la provincia dove tutti sanno tutto di tutti, eppure regna l’indifferenza che sfocia in omertà, specie nei confronti di chi ha il potere e i soldi. «Soneri – racconta Varesi – invecchiando è più arrabbiato, indignato, una volta prevaleva l’aspetto del rammarico, della nostalgia su quanto non è stato. In ogni caso, dopo vent’anni insieme, al mio commissario voglio bene».”

Emanuela Giampaoli, La Repubblica,

“Non più solo un’indagine, ma l’accensione di un faro nel buio dell’umanità. Varesi, con la sua abilità nel destreggiarsi tra nebbia e delitti, costruisce ancora una volta un giallo emozionante. Cala il suo personaggio preferito nelle piccole miserie umane, scava nelle storie, restituisce, appunto, una dignità anche al matto che crede nella presenza di mostri nel Po, tra riflessi della coscienza e l’ignoranza di chi non ha mai superato di un metro il confine della propria vita. Scava tra i segreti custoditi nei paesi, nelle parrocchie e negli studi medici o perfino in quelli che una volta chiamavamo manicomi. Varesi entra in questo mondo in punta di piedi, tra culatello, strolghino e Bonarda, che gli permettono di guadagnarsi la fiducia di chi vede, anche attraverso la nebbia, ma poi chiude gli occhi e alza barriere che sono come i sacchi di sabbia per proteggersi dalla piena. ”

Lorenzo Cresci, La Stampa,

“Varesi penetra nei drammi della società utilizzando con abilità la trama del poliziesco muovendosi tra intuito e deduzione: gli invisibili di cui siamo circondati giocano, malgrado loro, un ruolo di primo piano, anche se alla fine a vincere sono sempre ‘i sopravvissuti, i cinici e gli indifferenti’, come amaramente constata in chiusura lo stesso Soneri, in questo romanzo che si fa apprezzare per un’efficacia e solida architettura narrativa.”

Federico Migliorati, Il Gazzettino nuovo,

“Una scrittura colta e raffinata in grado di far emergere l’anima delle persone e dei luoghi.”

Mauro Trotta, Il Manifesto,